Questa è bella: da qualche parte nel mondo ci sarebbero buoi allevati per la pelle. A un certo tipo di comunicazione, che per esaltare un qualsiasi materiale proposto come bio o green lo mette in conflitto con la pelle, ci siamo abituati. All’usurpazione del termine pelle, no, non ci abituiamo: su questo siamo intransigenti, ribattiamo punto su punto. Un materiale o è pelle (e ha certe qualità) o non lo è (e quindi non si può suggerire che abbia le suddette qualità). Ma la news online di Wired su Desserto ci lascia interdetti. Il testo è un encomio del materiale, sviluppato in Messico a partire dalle fibre del cactus, che indugia nella bonomia di cui sopra. Quelli di Desserto, scrive l’autrice en passant, hanno un merito: “Anziché allevare buoi, hanno un ranch nello stato di Zacatecas in cui coltivano i cactus. Che segnano, dal punto di vista della sostenibilità, molti punti a loro favore”.
Buoi allevati per la pelle
Wired casca nel solito errore. I bovini (e gli ovini) non sono allevati per la pelle, bensì (a seconda del capo) per la carne, il latte o la lana. La concia raccoglie uno scarto della zootecnia e gli dona una seconda vita tramite un processo di upcycling dal retaggio ancestrale. Lo sanno gli addetti ai lavori, così come lo dimostrano le evidenze empiriche: quando la filiera della pelle (accade in questi tempi difficili) rallenta, le pelli per i macelli si riducono a rifiuto difficile da gestire. Non ci risultano, invece, allevamenti di buoi a scopo conciario. Accettiamo la scommessa: se Wired ce ne dimostra l’esistenza, ammettiamo il nostro errore. Altrimenti saranno i colleghi a riconoscere il loro, come quello di continuare a scrivere “finta pelle”, quando (oltre il buon senso) c’è un decreto a impedirlo.
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