Ci hanno messo un po’. E il processo non può dirsi ancora compiuto, perché è ancora facile imbattersi in articoli entusiastici sulla tale iniziativa che è “green” solo perché “animal-free”. Ma i media hanno finalmente capito che veg non vuol dire sostenibile. Cioè che esclude la pelle (o la lana, o la seta) dalle collezioni non vuol dire automaticamente fare un piacere all’ambiente. Noi de La Conceria lo sosteniamo da un pezzo. Due articoli, uno di Vogue e uno di South China Morning Post, spiegano al grande pubblico la questione.
Veg non vuol dire sostenibile
“Vegano non è necessariamente sinonimo di sostenibile”. Lo dice chiaro e tondo Ashley Gill (Textile Exchange) a Vogue. Certo, alcuni dei suoi presupposti logici rimangono contestabili. Gill, ad esempio, continua a considerare la concia responsabile anche dell’impatto ambientale della zootecnia, di cui non è partner, ma di cui raccoglie e nobilita uno scarto. Ma, almeno, Gill chiarisce che anni di propaganda veg si basano su un sillogismo sbagliato, cioè che applicare un certo animalismo all’industria della moda vuol dire essere automaticamente ecofriendly (e questo lo spiega anche SCMP). Chi ragiona così, sottovaluta (per ingenuità o con malizia, aggiungiamo noi) che “ciò che viene definito vegano potrebbe essere stato realizzato con plastica vergine, impiegando sostanze chimiche altamente tossiche. E questa è una cosa veramente importante di cui occorre tenere conto”.
L’equazione della sostenibilità
Le due analisi giornalistiche ricordano che, per valutare la sostenibilità di un prodotto o di un materiale, bisogna considerare molteplici valori. Le emissioni gassose, il ricettario chimico, la durabilità del prodotto finito e altre ancora. È, allora, impossibile avere risposte nette e manichee, come piacerebbe a qualcuno (specie di area veg). “Se si sostituisce la pelle con tessuti di plastica che provengono dal petrolio – ribadisce Sébastien Kopp, che ha un approccio pluralista al portafogli materiali di Veja –, come si fa a sostenere di essere più ecologici? Se si opta per la plastica, si finisce inevitabilmente per trivellare il suolo ed estrarre il petrolio”. Si può definire condivisibile la conclusione cui giunge Nina Marenzi (The Sustainable Angle): se l’industria della moda è impegnata nelle proprie performance ambientali, l’impegno deve essere olistico. Senza esclusioni, senza paletti ideologici. Arriveremo “a una catena di approvvigionamento della pelle”, dice, “sostenibile in ogni suo segmento, dalla lavorazione alla tracciabilità, fino al benessere degli animali”. Chi sostiene che la moda per essere green deve escludere la pelle, concludiamo noi, lo fa per i suoi interessi, non certo per l’ambiente.
Foto dal nostro archivio
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