Il made in Italy è intrappolato in un paradosso. Investe e pratica la sostenibilità, ma subisce la comunicazione di chi la strumentalizza a fini di marketing. “Per questo dobbiamo affermare che i veri ambientalisti siamo noi – tuona Antonio De Matteis, CEO del gruppo Kiton, durante l’Assemblea Annuale di UNIC – Concerie Italiane –. Trattiamo i materiali naturali e dobbiamo investire nel modo in cui si percepiscono i nostri prodotti. Perché sul mercato di oggi il percepito fa la differenza”.
Battaglia tra fatti e parole
La pelle, concorda De Matteis (a sinistra), è vittima della distanza tra sostenibilità concreta e chiacchierata. “Le concerie recuperano lo scarto dell’industria alimentare: basta questo a qualificarla come green. Ma non se ne parla abbastanza. Anzi, chi ne parla lo fa male: è un detrattore che usa l’argomento per collegare la pelle indebitamente agli aspetti critici della zootecnia”. Per questo il CEO di Kiton auspica che le imprese italiane della moda investano sul campo della comunicazione al cliente finale, soprattutto più giovane: “La nostra sostenibilità è ambientale, ma anche sociale – continua –. Dietro i nostri prodotti di qualità ci sono fabbriche di qualità. I nostri operai sono importanti ed è giusto pagarli di più”. È significativo che l’appello di De Matteis arrivi a pochi giorni di distanza dall’attacco di Bernard Arnault (LVMH) ai “finti ambientalisti”. “I veri ambientalisti siamo noi – rivendica –. Non abbiamo i mezzi dei grandi gruppi per i quali la sostenibilità è solo marketing, ma il nostro futuro passa dall’impegno nella comunicazione”.
Tra crisi e rivoluzione
Sulla comunicazione col cliente finale, e sul valore aggiunto (informativo e relazionale) che tale comunicazione può veicolare, insiste Sebastiano Barisoni, giornalista di Radio 24 (a destra). “Le concerie, come tutte le imprese italiane, operano in un mercato che è spaesante, perché del tutto nuovo. La crisi, che è congiunturale e si verifica per gli effetti concomitanti di pandemia, inflazione e guerra – spiega –, si somma una rivoluzione strutturale, quella dell’industria 4.0”. Da un lato le aziende sono chiamate ad assorbire il colpo, in attesa che passi la bufera. Dall’altro, però, devono imparare a muoversi in uno scenario inedito. “Le nuove piattaforme tecnologiche sovvertono la gerarchia tra venditore e acquirente. Rimuovono l’asimmetria informativa che tradizionalmente favoriva il primo a discapito del secondo. Ora il cliente può raffrontare l’offerta su scala mondiale e ha molto più potere”. In questo scenario, dunque, per affermarsi le aziende (le B2B allo stesso modo delle B2C) devono sfruttare il valore umano dell’empatia: “L’algoritmo è quantitativo: non può comprendere le sfumature della domanda – conclude –. L’imprenditore, invece, se si afferma come consulente del cliente diventa imprescindibile”.
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