Il tanto atteso boom delle alternative vegane alla pelle ricorda la rivoluzione secondo quella canzone di Giorgio Gaber: “Oggi no, domani forse, dopodomani sicuramente”. Già, perché lo stillicidio di articoli e comunicati stampa su nuovi materiali, immancabilmente “next-gen”, è fin qui un boom solo mediatico. L’atteso impatto industriale (immancabilmente più green e salvifico di quanto mai fatto prima dall’umanità), però, è sempre di là da venire.
Un’intervista a CNN
Si prenda l’intervista di CNN a Carmen Hijosa. Sorvoliamo sugli aspetti diffamatori che la retorica veg ha sulla pelle: per ergersi come la soluzione di qualcosa, hanno sempre bisogno di buttare giù la concia. Ma facciamo caso alle dichiarazioni di intenti. Piñatex, il tessuto a base di fibra di ananas, è su piazza da oltre dieci anni, ma “promette” di essere di scalabile, “promette” di poter ridurre la quota di plastica che impiega, “promette” di poter migliorare le prestazioni. Rimane, insomma, una promessa.
Dov’è il boom delle alternative
Che le alternative alla pelle abbiano un problema non lo diciamo noi, ma il mercato. Ora Vogue Business prova a dare in qualche modo la colpa ai brand: tante startup falliscono, tante altre fanno enorme fatica a strutturarsi dal punto di vista industriale, perché non hanno ricevuto dalla moda il sostegno necessario. E per questo, poverine, ora cercano nuove sponde nel design. Per quanto ne sappiamo noi, la vicenda è nei termini inversi. Se i materiali next-gen cercano applicazioni nell’arredo e negli interni automotive, è perché si sono rivelati poco utili al fashion. Hanno capacità fisiche del tutto inadeguate alle necessità delle calzature, prodotto sottoposto quotidianamente a stress e sollecitazioni, mentre non hanno trovato un ruolo specifico nel grande business della pelletteria. Dire che è colpa dei brand, ci pare troppo.
Foto generata con Shutterstock AI
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