Il Fatto Quotidiano interviene nell’ormai fin troppo longeva polemica social sul top in agnello di Intimissimi e (ci duole riconoscerlo) lo fa in modo non esaustivo. La premessa è d’obbligo: il marchio di lingerie è dai primi di ottobre sotto attacco degli animalisti, scandalizzati per i modelli della linea Leather Flower. Eco della battaglia retorica arriva anche sulla pagina delle lettere del quotidiano diretto da Marco Travaglio. Qui, però, la testata non fuga i dubbi, anzi aggiunge confusione. Il titolo la dice lunga: “Pestare uno scarto ai tempi di Greta”.
Botta e risposta
È il 23 ottobre. Alla lettrice Carlotta, che interroga la redazione sul tema, risponde Silvia D’Onghia. La cronista prima solleva il sospetto della strategia di marketing, ovvero che Intimissimi si sia infilata, in epoca di grande mobilitazione collettiva per la sostenibilità, nella polemica per far parlare di sé. Innanzitutto, ci permettiamo di dubitare: non c’è stato gran battage pubblicitario sui modelli Leather Flower. E, poi, facciamo notare che l’asserzione contiene già un punto di vista distorto: la premessa sottintesa è che un prodotto in pelle sia in qualche modo “ecologicamente scandaloso”.
La perplessità del Fatto
D’Onghia cita la spiegazione fornita dai social media manager di Intimissimi ai follower: “Non vi preoccupate – parafrasiamo –, le nostre pelli sono lo scarto dell’industria zootecnica”. A quelli del Fatto l’argomento non sembra soddisfacente, anzi: “La toppa è peggio del buco”. Secondo D’Onghia, c’è un che di volgare: “Care amiche, avrebbero risposto da Intimissimi, non vi preoccupate per i poveri cuccioli: abbiamo utilizzato solo pelle di scarto – scrive –, ovvero la pelle di quegli animali portati al macello per fini alimentari. Gli arrosticini nel piatto, il tessuto epiteliale sotto le tette, perché dell’agnello, come del maiale, non si butta via niente”. A Intimissimi, conclude la cronista, manca la sensibilità: “Non c’è motivo per utilizzare nemmeno gli scarti animali, né per convenienza, né per marketing”.
Che cosa non è chiaro
Non ne facciamo una colpa alla redazione del Fatto, perché questi sono argomenti sui quali scivolano anche (troppi) addetti ai lavori. Ma la risposta è insoddisfacente. Ci sono due punti da chiarire. Il primo: le pelli bovine e ovicaprine utilizzate nel fashion sono tutte sottoprodotto dell’industria alimentare. Mucche, vitelli, pecore o agnelli sono allevati (a seconda dei casi) per la carne e per il latte, l’industria conciaria recupera dai macelli quello che si definisce un byproduct. Il secondo: proprio questo millenario lavoro di recupero dello scarto fa della concia una filiera circolare per definizione. Senza concia, la pelle non è altro che un rifiuto difficile da gestire: ora che la domanda di prodotto finito è in calo, ad esempio, in Sud America la conferiscono in discarica (e questo sì che è un anacronistico problema ambientale). D’Onghia chiude il proprio intervento con una battuta sulla preferibilità “dell’ecopelle”: ma nella stragrande maggioranza dei casi, quella che nei negozi è venduta con questa etichetta è un materiale plastico, derivato cioè dalla filiera petrolchimica. Tutta un’altra storia, tutt’altri problemi.
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