Il titolo del Guardian è inequivocabile: la moda usa “la falsa logica della finta pelle” come passe-partout per inondare di plastica il pianeta. Già, quando tutti i comparti industriali si impegnano nella ricerca di alternative naturali ai materiali derivati dai fossili, il fashion system fa testa coda e imbocca la strada opposta. L’ultimo esempio è quello del brand KHY di Kyle Jenner (in foto), che ha presentato 12 capi “quasi esclusivamente in finta pelle”. Sembrano di gran pregio e lavorati bene, commenta il Guardian: “Peccato solo che siano realizzati con quantità industriali di plastica. Vuol dire che rimarranno con noi e con le generazioni future, per sempre”. Ma non è mica tutta colpa di KHY: la moda è piena di finta pelle a ogni livello.
“La falsa logica della finta pelle”
I redattori del Guardian non sono ingenui e hanno già affrontato il tema del bluff vegano. Sanno bene, dunque, in che misura certi settori della moda guardino alla pelle come a un problema perché per tanti consumatori “non usare materiali animali è una scelta etica”. Il problema, però, “è che la maggior parte delle similpelli e delle pelli vegane (espressione vietata in Italia, ndr) è un prodotto dell’industria dei combustibili fossili. Non esiste un sistema per riciclarle. Stiamo semplicemente creando un moloch di materiali la cui produzione contribuisce alla crisi climatica e il cui inquinamento distrugge i nostri ecosistemi”.
L’inganno linguistico
I consumatori spesso non ne sono consapevoli, proprio perché ingannati da terminologie equivoche e fuorvianti. “Finta pelle è un termine impreciso e vago – spiega Jocelyn Whipple della società di consulenza The Right Project –. Allude alle qualità positive intrinseche della pelle, che sono però lontane dalle caratteristiche della plastica in termini di durabilità, longevità e compostabilità naturale. Dobbiamo chiamare i materiali per quello che sono e valutarli in base ai loro meriti”.
Le soluzioni
Il nostro punto di vista sulla questione non è completamente sovrapponibile a quello della redazione del Guardian, of course. Ma siamo d’accordo con ampi tratti dell’analisi. Innanzitutto condividiamo che, come sostiene Whipple, è fondamentale che brand e consumatori abbiano “una chiara comprensione dell’intero ciclo di vita del prodotto e, in definitiva, di cosa succede alla fine della sua vita”. È sbagliato demonizzare la pelle in quanto derivato da spoglie animali, insomma, ma si deve tener conto delle sue virtù di materiale circolare, di qualità, durevole e biodegradabile. Perché per rendere sostenibile l’industria della moda non basta “semplicemente lanciare un nuovo materiale”, conclude il quotidiano inglese, ma serve “cambiare un intero sistema”. Gli uffici marketing si dessero una calmata: non saranno loro a vincere questa battaglia.
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