Non che di notizie di cronaca non ce ne siano state. L’ultima settimana ci ha sconvolto con la drammatica alluvione che ha devastato la Romagna, miracolando il distretto calzaturiero di San Mauro Pascoli (come vi abbiamo raccontato qui). Ci ha sorpreso, purtroppo, in negativo con il rischio default di Factory, azienda toscana specializzata in abbigliamento in pelle, nota per essere titolare del brand DROMe (trovate qui la news). Poi c’è stato il ministro Adolfo Urso, titolare del MIMIT (Ministero per le Imprese) che ha annunciato il fondo sovrano per il made in Italy (ne abbiamo scritto qui e qui). Soprattutto, però, è stata una settimana nella quale abbiamo raccolto, analizzato e condiviso una serie di notizie molto significative rispetto alla necessità stringente, urgente, essenziale di arginare il greenwashing che attanaglia il fashion system, la sua filiera, la pelle e la carne. Serie di notizie nella quale non poteva mancarne una che tira in ballo Stella McCartney.
La “scoperta” di Stella
La stilista britannica, paladina veg e ultraoltranzista antagonista della pelle, ha fatto una scoperta incredibile. Cioè, che il 69% degli statunitensi non sa quanta plastica indossa. Il che ci ha praticamente costretto a fare alcune considerazioni che trovate qui:
La necessità di arginare il greenwashing
Nel frattempo, è stato pubblicata su MDPI – Coating Journals la ricerca “Material Circularity: A Novel Method for Biobased Carbon Quantification of Leather, Artificial Leather, and Trendy Alternatives”. La firmano accademici dell’Università di Firenze e ricercatori di CNR-INO e LENS, coordinati da Ars Tinctoria. Leggetela perché le cose che dice sui presunti materiali supergreen sono a dir poco illuminanti. La trovate qui.
Rebranding e class action
Tra i tentativi di arginare il greenwashing emersi questa settimana, va messo agli atti quello di Maria Guadalupe Ellis. Costei ha denunciato al tribunale distrettuale del Missouri nientemeno che Nike. L’accusa: la multinazionale utilizza dichiarazioni “ingannevoli e fuorvianti” per promuovere i suoi articoli (leggete qui la notizia). Anche il surrogato vegetale della carne creato da Beyond Meat è finito alla sbarra. Un gruppo di investitori accusa la società di aver mentito sulle capacità produttive e sulle prospettive di crescita. Secondo i promotori della class action il CEO, il COO e i due CFO succedutisi nel ruolo sono responsabili di “false e fuorvianti dichiarazioni, nonché omissioni, utili a gonfiare il prezzo delle azioni”. Ve lo spieghiamo qui.