A un certo punto del dibattito, la questione si pone proprio in questi termini: è etico l’impiego di pelli esotiche nella moda? La risposta è sì. Lo è per gli scienziati impegnati nei progetti di conservazione delle specie animali. Lo è, soprattutto, per LVMH e Richemont. Cathelijne Klomp e Matthew Kilgarriff, rispettivamente manager dell’Environment Development Department del gruppo francese e direttore CSR di quello elvetico, ne sono certi. Strutturare una filiera sicura e certificata della pelle esotica è una garanzia per il regno animale, per i loro habitat e per le comunità locali impegnate nel settore.
LVMH e Richemont
Per la holding della famiglia Arnault l’etica della pelle esotica è innanzitutto una questione di best practice e investimenti strutturali. “L’animal welfare è uno degli interessi principali di LVMH – spiega Klomp, intervenuta durante l’ultimo LP Sustainability Talks –. Su questo abbiamo articolato i programmi di sostenibilità dei nostri brand. Ci poniamo degli obiettivi e con questi gli strumenti per raggiungerli. Ci siamo dotati di protocolli interni, abbiamo investito nella filiera, allestito un sistema di audit per essere sempre in dialogo con i nostri fornitori. Collaboriamo con associazioni e anche competitor, perché il nostro obiettivo è contribuire al miglioramento di tutta la filiera”. L’impiego di certi materiali, ciononostante, può incontrare l’ostilità, specie di questi tempi, di una parte del pubblico. “Noi ci impegniamo ad essere davvero sostenibili – risponde Klomp –, consapevoli che abbiamo responsabilità verso le comunità locali: dalle nostre decisioni dipende anche la loro economia. Crediamo nella libertà di scelta dei nostri designer e dei clienti”.
I progetti di conservazione
È Daniel Natusch, membro del gruppo IUCN (International Union for Conservation of Nature), a spiegare i termini della questione. “C’è chi dice che certi materiali non andrebbero utilizzati, e così pensa di salvare gli animali. È il contrario: a dar loro retta, si finirebbe per destinarne ancora di più alla morte”. Perché? “I progetti di conservazione costano e le specie da proteggere sono tante – continua –. La regolamentazione dell’allevamento del coccodrillo e dell’impiego dei suoi prodotti, come carne e pelle, ha permesso il ripopolamento della specie e la tutela del loro habitat. È una verità che a qualcuno può non piacere, ma è così”. “Anthony Rupert è stato un filantropo e un membro fondatore del WWF – ricorda Kilgariff –. La sua famiglia oggi controlla ancora Richemont e mantiene il suo approccio ambientalista. Si sottovaluta, ad esempio, quanto siano importanti le zone umide, habitat di coccodrilli e alligatori, per il contrasto al climate change. Con un’industria responsabile, facciamo in modo che siano conservate”.
Il successo della Louisiana
“Molta gente becca un video su Facebook che demonizza la filiera del coccodrillo e se lo fa bastare per assumere una posizione definitiva – osserva Christy Plott, quarta generazione alla guida della conceria specializzata American Tanning –. Per sapere di che sta parlando, dovrebbe leggere gli studi scientifici, che però sono noiosi e sono fatti di grafici e tabelle”. Il risultato è che il pubblico si forma un’opinione non proprio attendibile e su questa base condiziona l’industria: “Grazie ai regolamenti locali e internazionali – ribadisce Plott – negli ultimi decenni abbiamo messo in piedi una filiera sicura e tracciabile, che prevede la liberazione di rettili in natura, la tutela del loro habitat e dei loro nidi. I tratti di costa sono in larga parte proprietà privata e, senza l’incentivo economico, i proprietari ne avrebbero fatto altro uso, invece di lasciarli ai coccodrilli”. “Il CITES è stato organizzato alla metà degli anni ’70 – dichiara Mathias Loertscher, responsabile sezione Protezione delle Specie per il Federal Veterinary Office di CITES –. Il commercio internazionale di flora e fauna, ai tempi deregolato, poneva problemi di sostenibilità. Li abbiamo risolti”.
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