Guarda caso, quando il dibattito si appiattisce sul “buoni contro cattivi” sono sempre i vegani ad arrogarsi per principio il ruolo dei buoni. Da marzo 2024 è in circolazione Food For Profit, documentario di Giulia Innocenzi e Pablo D’Ambrosi che mette all’indice le relazioni tra la zootecnia europea, le istituzioni comunitarie e le attività di lobbying che mettono in contatto i primi con i secondi. Il titolo contiene l’accusa: le imprese della carne producono “cibo per profitto”. Coltivano, cioè, interessi, vogliono accalappiarsi i fondi di un’Europa complice, mica badano ad altro: è l’avidità il motore del business. Il discorso rimbalza dall’agroindustria, ma ci interessa perché ha grandi analogie con la moda. Il punto di contatto è in un luogo comune: quello per il quale sono sempre i vegani i poveri Davide che combattono contro i Golia delle industrie tradizionali. Loro si raccontano così e il pubblico tende a crederci. La verità, però, è un’altra.
Le risposte
È Ruminantia, testata online che racconta le dinamiche della stessa zootecnia tanto vituperata, a rispondere agli autori di Food For Profit. Ci interessano qui gli articoli in cui si smonta il piedistallo morale sul quale si ergono gli animalisti/vegani. Ad esempio: a proposito di interessi economici. Ne ha la zootecnia, ok, ma non ne hanno anche tutti gli sponsor del documentario, cioè aziende e imprenditori a vario titolo impegnati nella produzione di alimenti “vegan ok”? Oppure sulla stessa attività di lobbying: è più trasparente un giornalista come Andrea Bertaglio, che dedica la carriera al racconto della sostenibilità, o chi prova surrettiziamente a estorcergli affermazioni da usargli contro?
Come nella moda
Anche nel fashion system imprenditori e designer che vogliono scalare la quota vegana del business si presentano ai media come “cavalieri senza macchia”. Omettendo, però, di essere portatori di interessi di settori molto munifici, come quello dei tessuti sintetici (petrolio) o le startup dei cosiddetti materiali next-gen (che raccolgono investimenti per centinaia di milioni). È un’immagine retorica del “piccolo contro il grande” che funziona anche nei casi più sorprendenti, come quello di Stella McCartney (malgrado il cognome che porta e i partner industriali che ha sempre vantato). Ci sarebbe da ridere, non ci fosse da preoccuparsi.
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