Ormai anche i vegani trovano insopportabile il marketing vegano

Ormai anche i vegani trovano insopportabile il marketing vegano

Mettiamola così: il marketing vegano ai vegani piace quando lo usano come una clava contro le industrie tradizionali. Ma agli stessi vegani non piace più quando se lo trovano puntato contro. L’analisi di Business of Fashion sulle paturnie dei produttori e utilizzatori di materiali alternativi è quanto mai esemplificativo delle tensioni che corrono all’interno del mondo veg. Perché quando si tratta di sottrarre tutti insieme spazi di mercato alla concia, il mondo radical-green è d’accordo. E con grande leggerezza lancia messaggi corali contro la pelle. Ma quando poi i produttori di materiali alternativi devono competere ciascuno per il proprio posto al sole, pestandosi i piedi con gli slogan facili e le etichette fuorvianti, riconoscono che il marketing vegano è un problema.

C’è bisogno di chiarezza

Ecco, si prenda lo sfogo di Amanda Parkes, responsabile innovazione del brand di sneaker vegane Pangaia. Loro ci provano, dice a BoF, ad essere trasparenti con i consumatori. Cioè a spiegare la composizione dei materiali che impiegano, il relativo impatto della produzione, la possibilità di riciclarli oppure no. Il problema è che tutti i competitor non si comportano alla stessa maniera. Anzi, si sperticano in un fiume di etichette “plant-based” e “vegan” che nulla dicono della reale sostanza di cui è fatta la tomaia. “Una gamma di soluzioni”, chiosa Bof, “che a volte comprende il 100% plastica”.

Il paradosso

Sono anni (decenni) che la concia chiede normative nazionali e internazionali a tutela del termine “pelle”. Perché il primo escamotage del marketing vegano è, appunto, appropriarsi illegittimamente della parola e del suo immaginario. Il paradosso è che, ora, anche dal mondo green chiedono di smetterla con tutte le etichette (truffaldine) come Pleather, vegan leather, eco-leather e chi più ne ha più ne metta. Lo pretende, ad esempio, Textile Exchange: “Chiamate pelle solo i materiali derivati dalla lavorazione di spoglie animali”. Il problema, chiosa Sydney Gladman, scienziato del Material Innovation Initiative, è che i produttori di materiali alternativi non sanno come altro fare. “I brand non sanno vendere i loro nuovi materiali comportandosi in maniera trasparente e degna di fiducia”.

E, intanto, il mercato va

Insomma, sul mercato aumenta il novero di chi si aspetta chiarezza. Una chiarezza capace di andare oltre, sia chiaro, slogan e parole d’ordine. Il rischio è che la bolla vegana finisca in un flop: “Quello di cui non abbiamo proprio bisogno – conclude Suzanne Lee, CEO della società di consulenza Biofabricate – è una nuova generazione di materiali che nel giro di 10 anni risulta non essere stata un miglioramento. O peggio ancora aver avuto impatti imprevisti, nel modo in cui degradano o reggono l’uso”.

 

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