Ogni volta che una giacca Patagonia confezionata con tessuto sintetico è lavata in lavatrice rilascia 1,7 grammi di microplastiche (particelle dalla lunghezza inferiore ai 5 millimetri). Il 40% di queste, superando i filtri degli elettrodomestici e poi quelli degli impianti di trattamento delle acque, finisce per riversarsi in fiumi, mari e oceani, con impatto negativo sull’ecosistema acquatico. Quando The Guardian, nell’autunno del 2014, ha riportato i risultati dei primi studi sui livelli di microfibre che inquinano gli oceani, ne ha parlato come “del più grande problema ambientale di cui avete mai sentito parlare”. Nella faccenda l’industria della moda ha un ruolo e Patagonia, griffe dell’abbigliamento outdoor per tradizione attenta alle questioni green, ci ha voluto vedere chiaro, affidando uno studio alla Scuola di Scienze Ambientali dell’Università Santa Barbara della California. Be’, i risultati, per chi pensa che fabbricare indumenti con materiali sintetici sia sinonimo tout court di maggiore sostenibilità ambientale, non sono positivi. Risulta infatti che durante il lavaggio gli indumenti rilasciano microfibre, che con sé portano anche le sostanze chimiche impiegate durante la manifattura. Per di più, lo studio entra in conflitto anche con un altro tema caro ai green, cioè la longevità dei capi d’abbigliamento: gli indumenti più vecchi registrano perdite di microplastiche maggiori di quelli nuovi. In termini di impatto ambientale, il problema non è solo che le microplastiche contaminano gli ecosistemi acquatici, ma che, una volta digerite dalla fauna marina, risalgono la filiera alimentare e finiscono nei nostri piatti, con danni ancora da quantificare per la salute umana. Patagonia ora prende tempo e annuncia nuovi approfondimenti per entrare ancora più nel dettaglio della faccenda. I siti di riferimento della moda green, intanto, borbottano. (rp)
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