Pelle: il materiale più sostenibile, perché crearne di nuovi? Il materiale più sostenibile che c’è. Viene facile, ovvio, pensare alla pelle. Sostenibile e circolare per identità e definizione. Invece no. La fashion industry rincorre se stessa (come dimostra l’ultima “innovazione” lanciata da Gucci) percorrendo una direzione di per sé contradditoria. Perché produrre, creandoli ex novo, materiali di varia composizione (naturale e, spesso, non) quando a disposizione c’è la pelle, scarto (veramente naturale) recuperato da un’altra industria, quindi circolare? Perché, utilizzando la pelle, si impongono alle concerie capitolati chimici e tecnici che, in molti casi, ne annullano la naturalità?
Il materiale più sostenibile
Senza la concia e la sua attività di upcycling, la pelle si riduce a uno scarto della filiera zootecnica da smaltire in discarica o incenerire nei termovalorizzatori. Una verità storica condannata alla continua necessità di dover essere dimostrata, come nel caso di un recente e significativo studio realizzato negli USA. La concia, dunque, valorizza un rifiuto, ma lo fa esponendosi a un reiterato paradosso. In altre parole: le caratteristiche naturali di una pelle, quelle che la rendono unica, sono apprezzate solo in certi mercati e da certi consumatori: lusso e griffe, in particolare, chiedono prevalentemente pelli molto rifinite, dove ogni difformità sia coperta a dovere. Spesso, come si diceva, con soluzioni che ne complicano (per la conceria) l’impatto. Non solo. Nel frattempo, i materiali alternativi elevano la propria carica concorrenziale proprio sulla riproduzione di quei difetti che alle pelli vere sono “proibite” e si vendono come esempi di sostenibilità. Un cortocircuito, a tutti gli effetti
Capitolo capitolati
I capitolati dei brand che le concerie devono osservare accentuano tutto ciò, ponendosi spesso oltre vari livelli di legislazione e Linee Guida. Per esempio: c’è stato un periodo in cui alle pelli qualcuno chiese l’osservanza di standard tessili (!?!). Oppure, la verifica dell’assenza di sostanze che nella concia non sono mai state usate. Un fenomeno gravoso, che nel tempo si è ridotto grazie all’impegno di UNIC – Concerie Italiane che, su questo tema, continua a lavorare in modo trasversale, su più tavoli, con l’obiettivo essenziale e primario di proteggere l’identità del “prodotto pelle” a 360 gradi. Tutte queste richieste, infatti, finiscono quasi sempre per essere finalizzate a una trasformazione della pelle in un materiale standardizzato che perde l’immediatezza della sua caratteristica fondamentale: la naturalità. La quale, però, viene inseguita producendo dal nulla (non recuperando, la differenza è sostanziale) nuovi materiali. Possono delle esigenze di marketing (necessarie per soddisfare la platea veg dei consumatori) giustificare tutto ciò?
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