I brand avrebbero davanti molte opportunità per investire, in sinergia con i loro fornitori, nella sostenibilità. “Ma semplicemente non lo fanno”, dice a Business of Fashion (BoF) Alberti Candiani, presidente di Candiani Denim. La svolta green della moda è in un vicolo cieco. Mentre i grandi gruppi internazionali mantengono un certo riserbo sulle strategie industriali, cosa che non rende possibile per gli osservatori esterni valutarne l’efficacia, dalla filiera lamentano che il tema dei costi rimane dirimente. I marchi chiedono risultati spendibili sul mercato, ma non vogliono assumersene l’onere.
La svolta green della moda
Molti brand, riporta BoF, vantano di preferire i fornitori che ottengono i punteggi migliori negli audit sull’impatto ambientale o sociale con più ordini. Quando si chiede ai supplier, però, ne esce un quadro diverso: le commesse vanno in gran parte a chi offre il prezzo più competitivo. Ad esempio, Candiani racconta che da quando il prezzo del cotone biologico è aumentato, la maggior parte dei marchi è passata a fibre non organiche o ha ridotto la quota di “organic cotton” nei suoi materiali. Un’azienda come Candiani Denim, che ha investito nella sua storia oltre 100 milioni di euro nella direzione sostenibilità, si vede così lasciata al suo destino. Incidenti simili non sono isolati, capitano anche in Bangladesh.
BoF Sustainability Index
Bof prova a tenere traccia della conversione sostenibile con un apposito indice. Dall’ultima edizione emerge che “mentre le aziende parlano di sostenibilità più che mai, le azioni sono in ritardo rispetto agli impegni pubblici. Il punteggio medio complessivo delle aziende valutate è stato di appena 36 su 100 possibili, con notevoli disparità tra impegno e azione”. Guardando i risultati dei gruppi del lusso, Kering ottiene 49 punti, Hermès 32, LVMH 30 e Richemont 14. Negli altri segmenti H&M e Inditex con, rispettivamente, 42 e 41, insieme a Nike e Adidas con 47 e 40. Nella redazione del report, osserva BoF, si pone un problema di accessibilità dei dati. “Le informazioni su come le aziende pianifichino gli investimenti sono coperte – si legge –. Le aziende non accompagnano le loro grandi ambizioni con i dettagli”.
Tra storymaking e storytelling
“La maggior parte dei gruppi non fornisce dettagli sulla propria spesa per la sostenibilità. In diversi casi si giustifica la discrezione con la natura competitiva di tali informazioni”. Eppure, come spiegava Giusy Bettoni (C.L.A.S.S.) non esiste vera sostenibilità senza che storymaking (quello che si fa) e storytelling (quello che si racconta) siano allineati. “Molti grandi brand hanno promesso di eliminare le sostanze chimiche tossiche o di ridurre le emissioni di gas serra – osserva BoF –. Ma non possono raggiungere questi obiettivi installando finestre a risparmio energetico nelle sedi aziendali di Parigi o New York”. Al momento sappiamo che per LVMH la spesa in conto capitale relativa alla protezione ambientale è stata di 10,7 milioni di euro nel 2019 e di 10,4 milioni di euro nel 2020. Che Kering ha impegnato 5 milioni di euro in un fondo incentrato sul sostegno a progetti di agricoltura rigenerativa. Mentre Adidas assegna un budget annuale compreso tra 1 e 4,5 milioni di euro per la spesa in conto capitale per misure di efficienza energetica e generazione di energia rinnovabile.
Il bisogno dei fornitori
BoF è chiara: per raggiungere davvero gli obiettivi, ai marchi serve efficientare le fabbriche con investimenti di lungo termine in tecnologia e strumenti. Le fabbriche, però, spesso non sono dei marchi, ma dei fornitori. “I supplier lamentano di essere spesso lasciati soli quando si tratta di pagare gli investimenti”. Per questo la svolta green procede più lentamente di quanto potrebbe. “Piuttosto che mettere i fornitori l’uno contro l’altro ogni stagione sul prezzo – conclude –, i brand dovrebbero stabilire partnership stabili, anche se può voler dire che il costo della produzione cresce”.
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