Gli stessi argomenti. Esiti diametralmente opposti. Perché da un lato ci sono i nuovi prodotti “green”, quelli cui basta presentarsi come “disruptive”, molto “conscious” e magari “cruelty free” per essere accolti tra gli applausi. Dall’altro c’è la pelle, e con lei i materiali tradizionali, che a molti fanno storcere il naso. A prescindere. Perché? Per pregiudizio, solo perché tradizionali, appunto, o perché di origine animale, fatto imperdonabile per i veg. Il paradosso, però, è che a guardare bene le virtù (acclamate) degli uni non sono diverse da quelle (dimenticate) degli altri.
I prodotti “green”
È sorprendente, in questo senso, leggere un recente pezzo di Forbes. La testata dedica una ricca panoramica alle proposte estive dei brand emergenti, di quelli green, dicevamo, con effetto wow. Nella rassegna la pelle è trattata con sufficienza. Le si riconosce appena che può essere “durevole” e a suo modo “eco-friendly”. Ma non molto di più, e non certo la pelle esotica. La scena è tutta per i materiali innovativi. E così Forbes può magnificare Nayla giusto perché usa l’imitazione ricavata dall’ananas insieme a vera pelle di pesce. Perché le scelte del brand sono meritevoli? Fornisce ai coltivatori di ananas una fonte aggiuntiva di reddito, assicura il magazine, ed evita che in Islanda gli scarti della pesca finiscano in discarica.
Pelle negletta
Se i redattori di Forbes ci pensassero un attimo, si renderebbero conto che anche la “cara vecchia” concia presenta le stesse virtù. Offre una fonte di guadagno aggiuntiva alla filiera zootecnica, che ovini e bovini li alleva per la carne, per il latte e per la lana. Ed evita che un ingente massa di derma animale finisca in discarica o nei termovalorizzatori. La concia lo fa da sempre. Ma i suoi argomenti non suonano cool. E quindi non ha la vita facile dei materiali alternativi.
Foto tratta da adapta-paris.com
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