Se anche una testata dello spessore di Business of Fashion, colosso anglo-statunitense dell’informazione fashion, vuole chiarezza sulle alternative vegane alla pelle, vuol dire che il vento sta cambiando. Veniamo da una lunga stagione in cui la stampa ha accolto con entusiasmo, se non benevola curiosità, qualsiasi nuovo materiale che imita la pelle e che, pur proponendosi in maniera antagonista, ha nel nome commerciale lo stesso termine pelle con un prefisso a scelta tra eco, vegan, friendly. Nessuno, se non gli addetti ai lavori e le associazioni di categoria, si soffermava sull’abuso terminologico: che è fuorviante definire pelle qualcosa che non deriva dalla lavorazione di derma animale, conservandone la struttura fibrosa. Tutti, però, prendevano per buoni gli argomenti del marketing vegano: che la concia, cioè, fosse tossica e i materiali alternativi la panacea a tutti i mali.
Il vento sta cambiando
Ci piacerebbe dire che è anche merito nostro e di chi, come noi, da anni batte sul tasto: solo la pelle può chiamarsi pelle. I concorrenti usino altri termini e siano chiari sulle proprie patenti di sostenibilità, prima di qualificarsi come green a prescindere. Probabilmente dobbiamo riconoscere il giusto merito a Textile Exchange, che con la circolare ai suoi associati ha tuonato: “Smettetela con etichette commerciali come pleather, attenetevi alle direttive internazionali”. Nonché alle leggi, laddove sono in vigore, come in Italia.
Ora BoF vuole chiarezza sulle alternative veg
BoF, che in passato abbiamo dovuto rimproverare, con l’ultima puntata del podcast The Debrief arriva a sollevare le stesse questioni. “I brand ricorrono sempre di più a definizioni brillanti come pelle vegana e a base vegetale – dicono -. Ma senza fare lo sforzo di spiegare l’impatto ambientale dei materiali alternativi alla pelle”. Quello che serve è semplicemente trasparenza affinché il consumatore sappia cosa compra e quindi arrivi all’acquisto in maniera consapevole. Il marketing vegano ora, invece, vende la facile idea di “materiali magici e privi di qualsiasi impatto sull’ambiente”. BoF invoca la caduta di tutti i tabù lessicali. Soprattutto quello relativo alle plastiche (componente basilare di molti materiali alternativi). “Plastic è diventato una parolaccia. Ma è un materiale utile e difficile da rimpiazzare: è pregevole impegnarsi a ridurne l’uso o favorire le bioplastiche”. Una rondine non fa primavera e non basta un podcast per dire di aver vinto la guerra. Ma, dalla nostra prospettiva, non possiamo che applaudire al cambio di rotta di BoF.
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