Più chiaro di così, il Washington Post non poteva essere: la cosiddetta “pelle veg” (espressione commerciale irricevibile) “non è sostenibile come pensi”. E nel solo titolo dell’articolo ci sono per noi due notizie. Innanzitutto una presa di posizione che non lascia adito a dubbi: le alternative alla pelle non sono tanto green come si presentano. E, poi, il riconoscimento del peso del marketing animalaro: i consumatori non si sono persuasi da soli della bontà dei vari tessuti che imitano la grana della pelle, pur non essendo in pelle. Sono stati indotti a credere nella presunta superiorità delle alternative da anni di battage pubblicitari degli stessi produttori di materiali alternativi cui media e vip (pigri o compiacenti) hanno dato risalto.
La verità sulla pelle veg
L’articolo del Washington Post non aggiunge al dibattito elementi che i lettori de La Conceria o chi si interessa dell’industria della moda non conoscano già. L’etichetta veg è stato un grande rebranding dei tessuti sintetici mentre le concerie nobilitano un sottoprodotto della zootecnia. L’articolo, per equanimità, offre ancora credito alle possibilità dei materiali next-gen di ritagliarsi un ruolo nel mercato dei tessuti sostenibili (anche ne se sono ormai di dominio pubblico le enormi difficoltà a scalare il modello economico). Dalla nostra prospettiva il valore più importante resta quello sintetizzato nel titolo. Una tra le più importanti testate economico-finanziarie al mondo scrive sic et simpliciter che la pelle veg non è sostenibile come si pensa. E si aggiunge in questo senso, alla preziosa opera di debunking di questo falso mito già iniziata da quotidiani come Bloomberg, Guardian e Business of Fashion.
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